I viaggi della speranza

Più o meno a tutti, specialmente a noi squattrinati esponenti della “generazione 1000 euro” (che poi, 1000 quando va bene), sarà capitato di affrontare almeno un paio di quelle interminabili avventure on the road che amo definire “viaggi della speranza”.

Se è vero che il più delle volte è necessario optare per una di queste mirabolanti peripezie a causa della mancanza di piccioli, è vero anche che può capitare di intraprendere un lungo e complicato viaggio a causa di qualche emergenza improvvisa che non consente di pianificare con calma gli spostamenti, oppure a causa di qualche malaugurato imprevisto durante il percorso. C’è poi chi “il coraggio è il mio mestiere”, non prenota un tubo e decide quindi proposito di raggiungere una meta a poche centinaia di chilometri di distanza non prima di aver cambiato 3-4-5 mezzi e atteso ore e ore tra un mezzo e l’altro. Perché, in fondo, il viaggio di per sé è già un divertimento, indipendentemente da come e quando si arriva a destinazione.

Nella mia giovane carriera di viaggiatrice i viaggi della speranza non sono mancati.

Penso sempre con infinita tenerezza alla prima e ultima volta che presi il treno da Catania per arrivare a Milano. Era metà agosto, avevo appena saputo che da lì a un paio di settimane avrei iniziato uno stage e dovevo quindi affrettarmi a  trovare una casa a Milano in tempi ultrabrevi. Senza una lira e senza un’anima pia che potesse accompagnarmi, lasciai perdere gli aerei che costavano uno sfracelo e optai per il biglietto di un treno espresso (mi pare si chiamasse Freccia del Sud o qualcosa del genere) che sarebbe partito da lì a un paio di giorni. Sfiga volle che non ci fosse manco un posto letto libero e che l’unico posto a sedere che riuscii a trovare fosse in una cuccetta da sei dove, per qualcosa come 18 ore, ho diviso il poco spazio a disposizione proprio con altri 5 occupanti (di cui due erano bambini). E ovviamente, tutti loro scendevano disperatamente a Milano come me. Risultato: zero ore di sonno, due caviglie grosse quanto il vagone, un rincretinimento che di certo non mi ha agevolato negli spostamenti in una città che, fino a quel momento, avevo visto solo mezza volta e per giunta da turista. Arrivai a Milano verso le 13 (ero partita dalla Sicilia più o meno verso le 17 del giorno prima) e la prima casa la visitai alle 16… Non a Milano, però, eh, sarebbe stato troppo facile! Dovetti recarmi a Rho. Ma non a Rho fiera, dove arriva comodamente la metro; ignara delle distanze milanesi avevo pensato bene di visitare una casa a Rho centro, dove mi recai con il passante, termine che fino a quel momento non avevo mai sentito neanche per sbaglio.

Altro ricordo, questa volta si trattava di un’emergenza. Da Milano dovevo volare a Pamplona, viaggio organizzato in pochi giorni se non addirittura in poche ore. Non ricordo quali fossero gli spostamenti pianificati all’inizio; fatto sta che persi l’aereo da Milano (ancora oggi, dopo anni, non riesco a spiegarmi come fu possibile) e, di conseguenza, anche gli altri collegamenti successivi che mi avrebbero portata a destinazione. In preda al panico più totale lasciai Linate su un bus per raggiungere Malpensa e imbarcarmi su un altro volo con arrivo a Barcellona. Volo che, come se non bastassero già tutti i precedenti disagi, partì in ritardo. Arrivai a Barcellona in tarda mattinata, ma il mio bus per Pamplona sarebbe partito non prima di mezzanotte. Avevo tante belle ore a disposizione, ore che non impiegai per fare la turista (data la circostanza per la quale ero partita non ne avevo per niente voglia) ma a fare la punkabbestia spostandomi da un buco all’altro della stazione dei treni della città catalana, sedendomi ogni tanto in qualche angolo in terra per mettere in carica il cellulare. Giunta finalmente mezzanotte presi il bus (dopo ore passate a chiedermi e a chiedere in giro se sarebbe partito davvero da lì o se per caso me lo fossi sognato) e, dopo altre cinque/sei ore, arrivai alla stazione dei treni di Pamplona. Cinque/sei ore durante le quali non chiusi occhio neanche per finta. Il viaggio di ritorno fu lo stesso stillicidio. Ricordo di essere arrivata a Malpensa lercia, morta di sonno, probabilmente anche mezza malata e, di certo, ancora più punkabbestia che nel viaggio di andata.

Come non citare, tra i viaggi della speranza presenti nel mio curriculum, anche quelli intrapresi per raggiungere la Germania. E pensare che all’epoca non ero né in emergenza e né troppo squattrinata. Fatto sta che mi svegliavo prima delle 5 per raggiungere la stazione Centrale di Milano in taxi (all’epoca abitavo in culandia ed era complicato spostarsi di notte con i mezzi), prendere il bus per Orio, imbarcarmi su un aereo che partiva verso le 8 per giungere non all’aeroporto centrale ma a quello dimenticato da dio a due ore di bus dalla città. Verso le 13 arrivavo a destinazione. Cioè, in pratica impiegavo 8 ore per percorrere meno di 700 chilometri… Con l’auto ci avrei messo meno. Il ritorno, ovviamente, era la stessa interminabile solfa ma in versione by night a orari assurdi. Tutto questo per volare low cost e non farmi svenare dalle compagnie aeree di bandiera.

Infine, un viaggio di ritorno in auto da Monaco, fatto in un periodo dell’anno alquanto sfigato per il clima: era il primo weekend di dicembre. Ci siamo messi in macchina verso le 18 e, nello stesso istante in cui siamo partiti, ha cominciato a nevicare. E la neve ce la siamo portata dappresso in Austria, in Svizzera e quasi fino al confine italiano. Ah, tra parentesi, in una simpatica strada tra i monti svizzeri dove non passava (per fortuna) anima viva, l’auto ha preso a slittare e si è fermata nell’oscurità e in the middle of nowhere. Poi è ripartita e alle 3 di notte siamo arrivati a Milano. Dopo 4 ore toccava alzarsi per andare a lavoro.

Però quello è stato un viaggio fatto in compagnia di alcuni dei miei migliori amici e ogni volta che ci pensiamo ci ridiamo su. Avevamo organizzato quel weekend solo una settimana prima, chiacchierando tra una birra e uno spritz, in pochi minuti. Ci sentivamo alternativi scegliendo di andare a Monaco in un periodo diverso da quello dell’Oktober Fest. E quelle nove ore di viaggio in auto sono state divertenti, a modo loro, freddo e sonno a parte. 

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